Carcere, lavoro, sicurezza e società: tra ambiguità e contraddizioni.


Prologo

Nelle riunioni di redazione della Gazzetta Dentro[1], il giornale della Casa di Reclusione A. S. di Asti, il tema lavoro emerge frequentemente e con forza. Più che un desiderio, un richiamo all’attuazione della Costituzione da parte delle persone detenute, dietro cui traspare una volontà di riscatto, di riconoscimento, di dignità e di speranza per il futuro, con lo sguardo rivolto anche alle proprie famiglie. Ne parlano in diversi articoli ed interviste, che occasionalmente si svolgono con aziende ed imprenditori, da cui traluce la centralità di questo aspetto:

“Le patrie galere così per come sono adesso, sono spesso luoghi che non hanno una funzione rieducativa. Forse molti pensano che il carcere sia una medicina. Se fossero applicate le leggi della nostra Costituzione, dove si stabilisce che la condanna deve avere una funzione rieducativa e non certo vendicativa, allora il carcere potrebbe essere una medicina. Purtroppo, non è così e da un’analisi del carcere per com’è adesso, possiamo solo dedurre che è per molti aspetti simile ad una malattia che fa aumentare la recidiva. Bisogna fare qualcosa per migliorare le persone. Con la sofferenza e la rabbia, sarà difficile. La pena deve essere certa, ma ci deve essere altrettanta certezza della possibilità di recupero. E questo può avvenire semplicemente con il lavoro in carcere … Se manca questo, allora è inutile parlare, perché il problema nelle carceri rimarrà sempre”[2].

È importante, quindi, provare, ad approfondire un po’ il tema dell’assenza/presenza del lavoro per i detenuti, e delle sue ragioni, cercando di evidenziare le contraddizioni che ne emergono non solo per il mondo carcerario e per la sua organizzazione, ma anche per la società tutta.

Carcere e lavoro

Il tempo “sottratto” come sottolineato dal Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, “deve avere sempre significato” coerentemente con il dettato costituzionale: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art.27 c.3). L’imprescindibile impegno al concreto ed effettivo orientamento della pena detentiva alla finalità costituzionalmente espressa rappresenta “la concretizzazione di un diritto soggettivo della persona reclusa”[3]. Nel caso della detenzione in carcere, tra i principali fattori che possono concorrere al raggiungimento di questo traguardo vi sono le opportunità lavorative e formative[4], come specificato e declinato concretamente, nelle norme sull’Ordinamento Penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354)[5], che individuano nel lavoro uno degli elementi più importanti (se non il più importante) del trattamento: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro … salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro” (art. 15). Questa centralità del lavoro nella previsione trattamentale è ampiamente normata nell’articolo 20 (come riformato dai d.lgs. 123 e 124/2018) e successivi in cui si ribadisce che “devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro … lavoro che non deve avere carattere afflittivo ma deve essere organizzato coerentemente con le normali condizioni del lavoro nella società libera e nel rispetto della normativa vigente anche se remunerato meno per i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria”, ossia “in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi”. La legge richiede, inoltre, da una parte che a livello nazionale il Ministro della Giustizia predisponga annualmente, entro il 31 marzo, un’analitica relazione circa lo stato di attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti nell’anno precedente, e dall’altra parte che a livello locale siano attive presso ogni Regione e presso ogni istituto carcerario Commissioni per il lavoro penitenziario. In particolare le Commissioni interne alle singole carceri dovrebbero essere composte dal direttore, dal dirigente sanitario, da responsabili delle aeree pedagogica e sicurezza, da un funzionario dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna, da rappresentanti sindacali e dal direttore del centro per l’impiego, ed hanno tra i vari compiti quello di formare elenchi di detenuti per l’assegnazione dei posti di lavoro, stabilendo anche criteri per il loro avvicendamento. 

Un articolato sistema di diritti/doveri e prescrizioni normative che si accompagnano a quelle costituzionalmente previste[6], ma che, purtroppo, non sembrano trovare puntuale riscontro nei fatti. Sono le stesse persone ristrette a raccontare che nella concretezza della vita reale queste previsioni formali non corrispondono alla verità pratica: “Si tratta di norme lontanissime dalla realtà, nella quale due detenuti su tre non svolgono alcun lavoro e solo in minima percentuale hanno la fortuna di essere impegnati in prestazioni veramente professionalizzanti e con la realistica prospettiva di un lavoro da liberi. Il lavoro carcerario è poco e per pochi”[7].

Questa contraddizione sovente è mascherata da interventi retorici, da narrazioni sulle sporadiche esperienze virtuose o da periodiche Relazioni, come, ad esempio, quella del Ministero della Giustizia per l’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2023[8], in cui si afferma che “l’Amministrazione penitenziaria ha sempre curato con particolare attenzione il tema del lavoro penitenziario … al fine di favorire il reinserimento sociale lavorativo dei detenuti, una volta scontata la pena”, sottolineando l’importanza di una ampia e corretta applicazione della Legge 193/2000, cd. “Smuraglia”, che prevede sgravi fiscali e contribuitivi in favore delle realtà imprenditoriali che operano all’interno degli istituti penitenziari.

Dichiarazioni che non rispecchiano fedelmente la realtà del lavoro in carcere. Infatti su 56.107 detenuti (dati aggiornati al 30 giugno 2022), sono 18.654 (meno di uno su 3), quelli che hanno un’opportunità lavorativa e di questi solo 2.473 (appena 4 su 100) rientrano nell’ambito di applicazione della legge Smuraglia e sono impiegati alle dipendenze di soggetti esterni con un lavoro “vero”, mentre i restanti 16.181 detenuti sono impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, per lo più con incarichi di manutentore, addetto alla refezione (cuochi e portavitto), barbiere, addetto alle pulizie, addetto alla lavanderia, scrivani, …, lavori in generale assai poco qualificati e che difficilmente conferiscono competenze spendibili successivamente nel mondo del lavoro.

Si deve, poi, rilevare che i numeri dei detenuti lavoratori spesso non fanno riferimento a impieghi a tempo pieno, ma indicano il numero di coloro che hanno avuto modo di lavorare durante l’anno, indipendentemente dal monte ore e dalla durata del contratto di lavoro. Nella maggior parte degli istituti penitenziari non si riesce, infatti, a garantire un lavoro a tutti coloro che ne avrebbero diritto e bisogno, ed il quadro della situazione che emerge, come ad esempio nei Rapporti annuali sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, è alquanto desolante: “il diritto-dovere di lavorare per i detenuti definitivi si configura come un privilegio, … la possibilità di provvedere al proprio sostentamento e a quello del proprio nucleo familiare con il lavoro in carcere è limitata, dato che le poche opportunità vengono ripartite in modo da tenere “impegnati” quanti più detenuti possibile per un breve periodo di tempo, o con orari lavorativi part-time … i lavoranti percepiscono al massimo uno stipendio mensile di circa 600 euro. Le attività che i detenuti svolgono in carcere sono perlopiù poco “professionalizzanti”, e difficilmente si riesce a costruire un percorso di reinserimento che consenta al detenuto di svolgere anche all’esterno l’attività che svolgeva in carcere. I corsi professionali sono sempre meno ed è venuto quindi a mancare un importante anello di congiunzione tra il carcere e la società”[9] [10] [11].

Con lo scopo di dare maggiore impulso alle opportunità formative e lavorative per le persone ristrette (almeno formalmente), recentemente (giugno 2023) è stato siglato un Accordo Interistituzionale tra Ministero della Giustizia e CNEL in cui si sottolinea come “il lavoro rappresenta uno degli elementi del trattamento penitenziario finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti ed al conseguente abbattimento del rischio di recidiva”[12]. Tale accordo che dovrebbe testimoniare le “buone” intenzioni e l’impegno istituzionale in tale ambito, nasce pochi mesi dopo una fotografia della situazione fornita dallo stesso CNEL particolarmente preoccupante, che confermava quanto rimarcato nei rapporti di Antigone e dai detenuti stessi: “Il numero di coloro che usufruiscono attualmente di un posto di lavoro rimane estremamente basso e le attività lavorative sono svolte perlopiù alle dipendenze della stessa Amministrazione penitenziaria, consistendo in occupazioni poco o affatto qualificanti, sfavorevolmente remunerate e distribuite a rotazione ad un ampio bacino di detenuti”. L’analisi si concludeva affermando che “il dato normativo, dunque la finalità rieducativa della pena – come Costituzionalmente prevista dall’art. 27 – non coincide con la realtà”. Il CNEL sottolineava anche come la lettura delle statistiche inerenti alla c.d. recidiva assuma “un ruolo essenziale al fine di operare una corretta valutazione in ordine ad un’effettiva rieducazione, volta al reinserimento nella società civile … la recidiva per i detenuti non lavoratori si aggira intorno al 70%, differentemente da quanto avviene invece con coloro che in carcere hanno appreso un lavoro, per i quali la recidiva scende drasticamente intorno al 2%”[13]. Dai dati diffusi dal precedente presidente del CNEL, Tiziano Treu, nel corso del convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” svoltosi nel mese di dicembre 2022 a Roma, emergeva, infatti, come se il tasso complessivo medio di recidiva stimato sull’intera popolazione carceraria di 56.107 detenuti si aggira intorno al 70%, per i 18.654 detenuti che in carcere lavorano e/o hanno appreso un lavoro, la recidiva, che rappresenta una delle principali questioni e problemi che riguardano il mondo carcerario, scende intorno al 2%[14] [15].

Con queste percentuali di riduzione delle recidive (dal 70% al 2%), sorprende che la possibilità di lavorare sia data solo al 32% delle persone ristrette (anche in considerazione degli alti costi giornalieri pro capite di circa 150 euro), risultando innanzitutto evidente che la garanzia del diritto al lavoro è la strada più corretta ed efficace per favorire il reinserimento sociale e per dare attuazione alla finalità rieducativa della pena costituzionalmente prevista. Non solo, perché abbattendo il dato sulle recidive da una parte si garantirebbe maggiore sicurezza sociale nella comunità (meno persone tornano a commettere reati), e dall’altra si diminuirebbe il numero complessivo dei detenuti (riducendo così i costi dell’intero sistema carcerario e risolvendone diversi problemi cronici: sovraffollamento, carenze di organico, spazi ridotti, …).

Allargando, poi, lo sguardo alla società, si dovrebbe prendere coscienza del fatto che con maggiori opportunità lavorative per tutti (dentro e fuori) non solo si darebbe attuazione al dettato costituzionale, ma si inciderebbe direttamente sul numero di crimini, ossia più lavoro meno delinquenza (e viceversa), con la logica conclusione che i principali investimenti per la sicurezza sono quelli in formazione e lavoro. Dal momento, inoltre, che la mancanza di opportunità lavorative è una delle principali determinanti della detenzione, fatta salva la responsabilità personale (perché c’è sempre possibilità di scegliere diversamente), bisogna rilevare come vi sia anche una responsabilità sociale/istituzionale perché le ingiustizie sociali e la mancata attuazione del dettato costituzionale sono uno dei fattori che più contribuiscono all’aumento della criminalità.

Questa dimensione sociale è fondamentale nell’affrontare da una prospettiva corretta la questione carcere perché, come affermava Basaglia, l’artefice del superamento in Italia dei manicomi, parlando del carcere e facendo un parallelo tra le due istituzioni totali: “La delinquenza o la malattia sono contraddizioni dell’uomo, ma sono anche un prodotto sociale, e non si può farne pagare le conseguenze, sotto coperture scientifiche diverse, a chi ne è colpito come se si trattasse sempre e solo di una colpa individuale”[16].

In un intervento al convegno “La riforma carceraria”[17] svoltosi nel 1974, l’anno precedente all’approvazione della legge 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario, con considerazioni di grande attualità e con la chiarezza e l’onestà intellettuale che lo contraddistinguevano, Basaglia si soffermava sulla centralità e sull’importanza di un “vero” lavoro: “Siamo in un momento in cui si sta varando una riforma … Tuttavia anche agli occhi di un profano la pena carceraria resta afflittiva, il lavoro una forma ammodernata di mercede, la riabilitazione una parola vuota di significato se non si riesce a capire chi si vuole riabilitare, per quale società, e quali siano i modi della riabilitazione, se il lavoro per il detenuto continua ad essere un lavoro diverso … L’elemento lavoro conserva il carattere dell’istituzione stessa e serve più a questa che all’individuo: è un mezzo di controllo, un’occupazione che previene l’ozio (fonte di degradazione, ma anche fonte di uno scontento che può facilmente organizzarsi in rivolta); è un mezzo di soggezione (gli internati fanno solitamente i lavori più umilianti, più faticosi, più degradanti); è affidato all’arbitrio del direttore dell’istituto che lo distribuisce in base alla “Buona condotta” (giudizio di valore esplicitamente soggettivo, che si riferisce all’adattamento alle regole dell’organizzazione e al grado di sudditanza dell’internato, quindi alla sua capacità di “non piantar grane”); è uno sfruttamento … se il lavoro deve essere uno degli strumenti di risocializzazione, deve trattarsi in un lavoro alla pari del lavoro nella comunità”.

L’attualità di queste considerazioni emerge dal confronto con le amare e molto simili conclusioni di un recente Rapporto di Antigone: “Difficilmente il lavoro in carcere contribuisce al reinserimento, e sembra essere al massimo un diversivo, un modo per far trascorrere con qualche attività il tempo della detenzione, un modo per far guadagnare pochi soldi in un’ottica di eterno presente che non getta le basi per il futuro”[18].

Pur non sottovalutando, infatti, l’importanza per chi vive in un contesto deprivato di tutto anche dei “lavoretti”, perché “quando si vive una dimensione sovraccarica degli infiniti bisogni della marginalità ed afflitta da cronica mancanza di risorse, anche qualche ora sottratta all’ozio forzato e una limitata remunerazione possono fare la differenza”, non bisogna dimenticare che altro è ciò che potrebbe garantire le finalità previste dall’ordinamento: “O il lavoro nelle carceri e nei manicomi è l’elemento che serve a garantire la continuità della vita dell’internato, anche nel periodo dell’internamento, garantendogli insieme tutti i diritti di cui l’internamento lo priva; o il lavoro, la riabilitazione, il recupero sono parole vuote di significato e prive di ogni fondamento reale”.

O, se si vuole, come suggeriscono i detenuti stessi: “Pura mitologia sembra quella di chi parla di lotta all’illegalità, contrasto della recidiva, percorsi di reinserimento senza la più profonda e prioritaria promozione del lavoro, della sua «unzione» di dignità, del suo volto costituzionale. Dentro e fuori dal carcere”[19].

Secondo Basaglia quanto si può dedurre da quest’ordine di cose (deduzione ancor valida perché il dato di realtà pare esser rimasto pressoché immutato in tutti questi anni), è molto semplice: non vi è alcun interesse a riabilitare coloro che hanno sgarrato dalle regole della società, “perché riabilitare e recuperare significa garantire il lavoro ed un minimo di vita” e “anche se la nostra Repubblica si fonda sul lavoro, non c’è lavoro per tutti. La nostra società, il nostro paese, con un’enorme percentuale di disoccupati e sottoccupati, che interesse possono avere al recupero e alla riabilitazione degli scarti umani?”.

“Non c’è riforma della prigione senza la ricerca di una nuova società”, gli faceva eco in quegli stessi anni Foucault, che proseguiva suggerendo che evidentemente (allora come oggi) manca un reale interesse ed una volontà riformatrice, ed il presunto “fallimento” del carcere[20], è in realtà ingannevole perché: “la fabbricazione della delinquenza da esso compiuta non è un suo fallimento, è la sua riuscita, perché era fatto per questo. La prigione permette la recidiva, assicura la costituzione di un gruppo di delinquenti ben professionalizzato e ben chiuso in sé stesso. … escludendo qualsiasi reinserimento sociale, assicura che i delinquenti restino delinquenti e che, d’altra parte, essendo delinquenti, rimangano sotto il controllo della polizia e, se si vuole, a sua disposizione. La prigione non è quindi un deterrente alla delinquenza o all’illegalismo, è un redistributore d’illegalismo”[21].

Le Regole minime standard per il trattamento dei prigionieri (Regole di Nelson Mandela) adottate dalle Nazioni Unite nel 2016, sono molto chiare sugli scopi della detenzione e sull’unica strada per raggiungerli: “Gli scopi di una pena detentiva sono, in primo luogo, proteggere la società contro la criminalità e ridurre la recidività. Tali scopi possono essere raggiunti solo se il periodo di detenzione è utilizzato per garantire il reinserimento delle persone nella società dopo il rilascio, in modo che possano condurre una vita autosufficiente e rispettosa della legge. A tal fine, le amministrazioni carcerarie e le altre autorità competenti dovrebbero offrire istruzione, formazione professionale e (soprattutto, ndr) lavoro” [22].

Il resto sono solo chiacchiere, “pura mitologia”, retorica che non si trasforma mai in riforma e trasformazione sociale in un contesto carcerario in cui “I detenuti impegnati in attività lavorativa restano pochi a fronte di coloro che permangono in condizioni di inattività, i corsi di formazione sono insufficienti, i livelli di specializzazione sono di fatto inesistenti e l’applicazione del regime di turnazione all’interno di singoli istituti comporta che i detenuti restano impiegati per periodi di tempo brevi mentre i periodi di inattività si dilatano alimentando frustrazione e malcontento”[23].

Il modo in cui l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni politiche continuano ad affrontare e portare avanti la questione lavoro, centrale nel garantire la finalità rieducativa costituzionalmente prevista e nell’abbattere il numero delle recidive, non solo sembra confermare l’analisi di Foucault, su una sorta di “interesse” a mantenere lo status quo, ma evidenzia quella contraddizione che secondo Basaglia emerge nella distanza tra “la funzione formale, astratta, teorica di un’istituzione, e la sua pratica reale”, ammonendo che “la verità sta nella pratica”[24], e che per cambiarla bisogna volerlo non a parole ma, appunto, nella pratica. Ma bisogna volerlo.

Epilogo

Un detenuto, redattore della Gazzetta Dentro nel carcere di Asti, in un articolo scriveva che “Essenzialmente il carcere è il riflesso di ciò che c’è al di là da queste quattro mura, solamente che tutto è racchiuso in pochi metri … ed è amplificato”[25]. Il carcere non è un organismo estraneo alla società, ma la riguarda e vi è strettamente collegato. Proprio per questo dall’analisi di alcune pratiche reali interne all’ambito carcerario, come quelle legate al tema del lavoro, si possono provare a leggere con occhi diversi anche importanti questioni che riguardano l’intera società, sgomberando il campo da strumentali mistificazioni e facendo emergere le contraddizioni reali (politiche, economiche e sociali), che nel carcere, come nell’intera società, spesso determinano emarginazione, ingiustizie, povertà, violenza e delinquenza.

Domenico Massano

Immagine in evidenza a cura di Lucilla Vittone


[1] Massano Domenico, Fare un giornale tra dentro e fuori il carcere. Se consentire l’espressione culturale rende più degna la detenzione, Animazione Sociale 357, 07/2022, anche su Persone e Diritti, https://personeediritti.altervista.org/gazzetta-dentro-il-carcere-il-tempo-la-citta-ed-un-giornale-tra-dentro-e-fuori/

[2] C. M., Il carcere deve essere pena certa, ma anche possibilità di recupero, in Gazzetta Dentro agosto/settembre 2022, pubblicato anche su Gazzetta d’Asti 22/07/2022.

[3] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Relazione al parlamento 2022. Cfr anche: Palma M., Presentazione della Relazione del Garante 2022 al Parlamento, Senato della Repubblica, 20 giugno 2022, https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/pub_rel_par.page.

[4] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, cit.

[5] L. 354/75 art. 1: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”.

[6] Costituzione Italiana, in particolare artt. 1, 3, 4, 35, 36.

[7] Detenuti di Costituzione viva, Carcere S. Vittore Milano, In cella salvati dal lavoro, La stampa 2 luglio 2023.

[8]  Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia anno 2022. Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2023. Cap. Lavoro penitenziario, p. 758 e segg. https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/anno_giudiziario2023_relazione_amministrazione2022.pdf#page=690

[9] Antigone, XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, La Repubblica (e il carcere) fondata sul lavoro, 2017, https://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/04-diritto-al-lavoro/

[10] Ibidem

[11] Antigone, XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, Lavoro e formazione, 2022, https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/lavoro-e-formazione-professionale/

[12] CNEL, Lavoro in carcere, accordo tra CNEL e Ministero della giustizia, 17/06/2023, https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2841/LAVORO-IN-CARCERE-ACCORDO-TRA-CNEL-E-MINISTERO-DELLA-GIUSTIZIA#:

[13] Gualaccini Gian Paolo, Realtà carceraria e mercato del lavoro: dignità e recidiva, su n° 1-2023 del Notiziario sul mercato del lavoro e la contrattazione del CNEL https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2769/REALT192-CARCERARIA-E-MERCATO-DEL-LAVORO-DIGNIT1%E2%80%A6

[14] CNEL, Carcere, Treu: recidiva al 2% per detenuti che lavorano, 05/12/2022 https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/694/ArticleID/2563/CARCERE-TREU-RECIDIVA-AL-2-PER-DETENUTI-CHE-LAVO%E2%80%A6

[15] Antigone, XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, 2022, cit.

[16] Basaglia Franco, La giustizia che punisce, in Scritti, Ed. Il saggiatore, Milano 2017, p. 663

[17] Basaglia Franco, La giustizia che non riesce a difendere sé stessa, in Scritti, Ed. Il saggiatore, Milano 2017, p. 829

[18] Antigone, XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, 2017, cit.

[19] Detenuti di Costituzione viva, carcere S. Vittore Milano, In cella salvati dal lavoro, La stampa 2 luglio 2023.

[20] Giordano F., Salvato C., Sangiovanni E., Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi, Ed. Egea, Milano, 2021. In questa ricerca dell’Università Bocconi di Milano, che parte dalla domanda “Perché gli istituti di pena falliscono nel perseguire il fine istituzionale della rieducazione dei detenuti che la Costituzione gli affida?” si afferma, ad es., come la recidiva del 70% sia “evidenza del fatto che le carceri non perseguono efficacemente il proprio fine istituzionale”.

[21] Foucault Michel, Alternative alla prigione, Neri Pozza ed., Vicenza, 2022.

[22] ONU, risoluzione A/RES/70/175 08/01/2016, si veda regola n.4

[23] Antigone, XIX Rapporto sulle condizioni di detenzione, 2023, Lavoro e formazione, https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/

[24] Basaglia Franco, La giustizia che non riesce a difendere sé stessa, cit.

[25] S. G., Il carcere è il riflesso di ciò che c’è fuori, in Gazzetta Dentro febbraio 2020, pubblicato anche su Gazzetta d’Asti 21/02/2020.