Di fronte ad un contesto globale che sembra saper solo più parlare il linguaggio della violenza, dello scontro, della prevaricazione e della guerra, è non solo utile ma, forse, necessario, avviare una riscoperta della nonviolenza e di una resistenza che si basi su di essa per provare ad arrestare questa pericolosa deriva e le sue drammatiche conseguenze.
Un compito, però, non semplice e che deve attraversare alcune ambiguità, visto che sempre più spesso le stesse richieste di pace, di diritti umani, di giustizia sociale ed ambientale sono considerate quasi come dichiarazioni di guerra, e chi le avanza è trattato alla stregua di un violento o di un nemico della società, testimoniando come tutte le parole possono essere manipolate, e i loro significati possono essere distorti.
Come può infatti accadere che l’azione di un corteo pacifico di giovani studenti che tenta di avanzare e/o che entra in contatto con le forze dell’ordine sia bollata come un’aggressione “violenta” e che questa definizione manipolatoria sia accettata come giustificazione di manganellate e violenze nei confronti dei giovani stessi?
Una possibile chiave di analisi e lettura la fornisce Judith Butler nel suo libro “La forza della nonviolenza” (2020), in cui evidenzia la necessità di prestare attenzione alle oscillazioni delle cornici concettuali che presiedono al significato di alcune parole e, riprendendo il pensiero di Walter Benjamin, ricorda come “un regime legale, se vuole monopolizzare l’uso della violenza, deve chiamare violenza ogni minaccia o sfida nei riguardi della sua autorità. Inoltre, può ribattezzare la sua propria violenza come forza obbligatoria o necessaria, persino come coercizione legittima; e poiché essa opera effettivamente attraverso la legge, in quanto legge, è legale, il che significa che è lecita”.
Etichettare come “violente” le manifestazioni di dissenso e le richieste di pace, diritti umani e giustizia, da parte di quelle autorità statali che si sentono minacciate da tali iniziative, dovrebbe far emergere la necessità di un’attenzione specifica al lessico politico che consente di pensare tanto la violenza quanto la resistenza a essa, tenendo in debita considerazione quanto quel lessico rischi di essere stravolto per schermare le autorità dalla critica e dall’opposizione”.
In tale prospettiva pare, quindi, di centrale importanza riscoprire e riaffermare il valore, il significato e la rilevanza strategica della nonviolenza, la cui forza sta soprattutto “nelle modalità di resistenza a forme di violenza che, regolarmente, occultano il proprio carattere violento”. La nonviolenza, infatti, rende evidente l’astuzia con cui la violenza di stato si difende “per ragioni di sicurezza” da chiunque manifesti forme di dissenso e di critica al potere costituito.
Di questa importante funzione disvelatrice della nonviolenza era già ben consapevole il suo più grande testimone e promotore, M. K. Gandhi, che nei suoi scritti sottolineava come: “Il seguace della resistenza civile nonviolenta non può nuocere in alcun modo ad uno stato disposto ad ascoltare la voce dell’opinione pubblica. Al contrario è pericoloso per uno stato autocratico, poiché attira l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni per le quali oppone la sua resistenza contro lo stato”.
Questo concetto era ripreso e riproposto in Italia da Aldo Capitini, che, dopo le tragedie della guerra e del fascismo, ne faceva uno dei punti cardine nel programma di ricostruzione di una società democratica ed in pace: “La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all’avversario i pretesti che giustifichino la sua repressione. Nonviolenza può essere il programma e la tensione di persone isolate, e può diventare il metodo di lotta di grandi moltitudini”.
Questa duplice funzione della nonviolenza sia come metodo di lotta contro violenze ed ingiustizie, sia come strumento di disvelamento delle “astuzie del potere”, portava un altro suo testimone e promotore, M. L. King, ad affermare che: “La nonviolenza è la risposta alle cruciali questioni politiche e razziali del nostro tempo: il bisogno degli uomini di sconfiggere l’oppressione senza ricorrere alla violenza”.
L’attualità e la forza della nonviolenza, però, non si riducono alla riscoperta del suo essere una strategia di lotta da usarsi occasionalmente o su questioni specifiche (per quanto utile comunque, perché prepara persone e strutture ad essere immuni dalla violenza e dall’oppressione). La nonviolenza è fondamentalmente “uno stile di vita che gli uomini praticano per la trasparente moralità dei suoi obiettivi”, ed un’articolata filosofia e strategia di azione che dovrebbe essere caratterizzata da “apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti, … una ricerca di tecniche e di metodi di lotta compatibili con l’amore e con il rispetto della verità”. La “forza della verità” che avevano in mente Ghandi, M. L. King, Capitini, …, è strettamente legata ad una postura fisica e spirituale, ad un modo di vivere, esistere e resistere, come singoli e come comunità, specialmente in condizioni in cui la propria persistenza è minacciata. E, come conclude la sua analisi Butler, “continuare a esistere anche in condizioni di repressione delle relazioni sociali costituisce la più grande minaccia al potere violento”.
Domenico Massano
Immagine in evidenza: una donna con un fiore davanti ad agenti schierati e con le baionette puntate.