“Il mio 25 aprile”. Memoria e testimonianze

Finiva il bombardamento su Torino del 20 novembre 1942 che aveva distrutto la casa dove abitavamo e sulla “Balilla” di un amico di famiglia la notte successiva con mamma e papà lasciavo Torino diretto a S. Martino Alfieri, nell’astigiano, paese natale di mio padre. Gli edifici pubblici erano chiusi, le scuole chiuse, la città deserta. Tra le macerie addossati ai marciapiedi tracciavano la strada i fuochi accesi e i gradi lumini d’olio posati a terra.

Avevo 4 anni. Saremmo tornati a Torino nell’estate del 1945.

La guerra, la fine della guerra, la lotta di Liberazione rivivono nelle mie memorie riflesse nel conversare di donne e uomini sull’aia della cascina dei mezzadri del Castello, nelle sere d’estate, nelle stalle d’inverno. La morte del nonno materno nel 1943, già provato dall’incerta sorte del figlio soldato, rappresentò l’apice del dolore famigliare. Dopo la fine della guerra, la lotta della Liberazione correva lungo la provinciale Asti-Alba con i ponti sul Tanaro fatti saltare per limitare le rappresaglie dei tedeschi nei paesi arrampicati sulle colline.

Avevo allora 7 anni.

Il significato e i valori della Resistenza li ho conosciuti dopo. Li ho conosciuti attraverso la vita, gli insegnamenti, i racconti, i libri di due partigiani straordinari con cui ho condiviso momenti dell’esistenza: Don Giuseppe Marabotto e il Prof. Felice Burdino. Per quegli strani giochi del destino sono stati entrambi miei insegnanti e in seguito, per conoscenza di vita, miei amici.

Don Marabotto è stato mio insegnante durante le elementari alla Aristide Gabelli di Torino nell’anno scolastico 1945-1946 e Felice Burdino mio insegnante di materie letterarie al Ginnasio di Ala di Trento dal 1951 al 1953.

Con loro in età non più giovane nacque poi una forte amicizia.

L’uno era un prete cattolico della provincia di Cuneo che ha vissuto anni drammatici fuori e dentro le prigioni in Via Asti e poi alle carceri denominate “le Nuove” a Torino, dove venne condannato a morte. Il secondo, di Pinerolo, era un laico, uno dei massimi protagonisti della Resistenza nel Pinerolese e in Piemonte. Entrambi hanno scritto un libro sulle loro esperienze, come partigiani, nella lotta di Liberazione.

L’uno e l’altro figure splendide. Don Marabotto, rappresentante di un clero operante nelle Formazioni Autonome Partigiane e il Burdino esponente di un mondo di sinistra, entrambi di assoluta onestà morale, di grande intelligenza, di molto coraggio e di infinita umanità.

A ripensare alla loro vita e ai loro libri molto meschine appaiono, ancora oggi, dopo più di 70 anni, le contrapposizioni nel giorno della Liberazione.

Le loro figure e i loro libri mi hanno sempre fatto capire che la Liberazione non appartiene ad alcun gruppo o schieramento politico. Come ripetevano loro “Appartiene al popolo”.

E’ significativo come nella vita e nei libri i loro pensieri coincidano.

Don Marabotto ha scritto “Un prete in galera”. La prima edizione era del 1953 in due volumi, esaurita da tempo. L’ho ritrovato sulle bancarelle di C.so Siccardi a Torino. E’ uscita una nuova edizione raggruppata in un unico volume nel 2021, per encomiabile iniziativa della Fondazione Donat Cattin, presso il Polo del 900.

“Diario partigiano” del Burdino, invece, è stato pubblicato dopo molto tempo nei primi anni ’90. L’ho letto in gran parte, prima della sua uscita, attraverso la voce dello stesso autore, quando era in stesura.

In quel tempo andavo sovente a Pinerolo per impegni professionali e portavo mio figlio Luca a lezione di latino dal Prof. Burdino.

Per questo ho avuto il privilegio di veder nascere e prendere corpo il libro. Il Burdino cominciò a scrivere il libro quando andò in pensione. Lo scriveva avvalendosi di un vecchio quadernetto sgualcito, che era il suo diario segreto di partigiano, scritto in linguaggio criptico, con parole in greco, perchè nel caso fosse stato catturato i fascisti o i tedeschi non potessero capire il contenuto. Sono molto fiero di averlo incoraggiato nella sua opera.

In questi due libri, “Un prete in galera” di un cattolico di destra liberale appartenente alle formazioni autonome partigiane e l’altro “Diario partigiano” di un esponente della cultura laica di sinistra si può trovare il vero volto, l’anima comune della Resistenza.

Don Marabotto si ritrova nell’alta Valle di Susa a Thures, un paese di 124 abitanti a 1700 metri, maestro di una pluriclasse, parroco e capobanda partigiano. Racconta dei “suoi” partigiani, lontani da ogni benessere, coricati di notte sulla paglia e sul fieno, in quel paesino sperduto con due metri di neve, ricercati come “ribelli”. Il loro compito era quello di prelevare armi dalle numerose caserme di frontiera al confine con la Francia, abbandonate dopo l’8 settembre, per farle avere ai partigiani della Val Chisone e della Val di Susa.

Giuseppe Marabotto sintetizza chiaramente il sentimento patriottico che lo aveva spinto alla lotta. “Non un intendimento politico, ma per la Patria, per salvarla. Per salvare il proprio paese, – scrive – “molti ragazzi e uomini lo abbandonarono per poter meglio difenderlo; per salvare la casa e i propri compagni, scelsero la vita dura del volontario che abbandona i propri comodi, gli interessi della vita di ogni giorno, per andare alla lotta”.

Scrive ancora “per salvare i figli di sangue patirono i padri di famiglia, come per la salvezza dei figli spirituali, delle popolazioni loro affidate, umili preti si fecero soldati, per assistere altri figli laddove più era il pericolo e maggiormente richiesto il loro sacro ministero”. “Anche io – dice don Marabotto – volli essere uno di quelli…. Uomo di parte? No, partigiano d’Italia, uno dei tanti umili preti che, vestiti di tonaca, furono protagonisti”.

Il suo nome di battaglia era “Tevere Tre”.

E ancora Don Marabotto dopo la tortura nelle carceri di Cesana e di Via Asti, dopo il processo alle Carceri Giudiziarie delle Nuove, la condanna a morte e una reclusione protrattasi per 9 mesi scrive “Dal ricordo degli orrori deve nascere la volontà di pace, dal sacrificio di tante vite la fratellanza cristiana fra i popoli”.

Questo era lo spirito di Don Marabotto.

Simile è lo spirito che spinge Burdino alla lotta. Il nome di battaglia del Prof. Burdino era “Balestreri”. Il suo libro “Diario Partigiano” nasce dopo 60 anni dalla liberazione con lo stesso spirito di allora.

Narra la sua vita come partigiano nella Valle Pellice, racconta i rastrellamenti con centinaia di tedeschi a Luserna, a Cavour, i pattugliamenti a Villafranca, Vigone, Campiglione Fenile, Bagnolo. I buchi scavati nelle vigne per nascondersi e nascondere le armi. I tanti caduti fra i “suoi” partigiani.

Racconta come lui “Balestreri” dopo aver ucciso un tedesco e liberato un partigiano si ferma a guardare quel volto che prima era solo un bersaglio da colpire e ora con la morte è tornato ad essere umano e “prova una sensazione di pena per la guerra”. Racconta la distruzione per sua opera di 30 aerei tedeschi al Mugello nel pinerolese, in una epica alba, ma non se ne inorgoglisce.

Vi è nel suo libro, nel momento della vittoria, il rifiuto di calpestare, per vendetta sul nemico, quegli stessi valori per cui lui stesso ha combattuto. Così si oppone alla esecuzione sommaria dei prigionieri e grida “Vogliamo ridurci al livello di coloro che abbiamo sconfitto”. Esclama infine il laico Balestrieri “ricordatevi che non è il comunismo che salva il mondo, ma il Vangelo”.

Don Marabotto ha continuato a parlare della Resistenza agli alunni delle elementari. Alla Gabelli di Torino la mia mantellina grigioverde, tratta dalla mantellina più grande di mio papà, si incontrava con la sua mantellina nera, quando scendeva dal tram n. 10 in C.so Giulio Cesare per avviarsi verso la Scuola. Insegnò in seguito per molti anni alla Scuola Manzoni di C.so Svizzera a Torino e in altre Scuole elementari.

Il Prof. Burdino ha continuato a insegnare per 40 anni ai suoi allievi del Liceo Pamparato di Pinerolo.

Don Marabotto l’ho incontrato con Giuseppe Costamagna, quando era in pensione e viveva a Benevagienna in un modesto alloggio con la sorella, anche lei protagonista della Resistenza. Mi disse che non poteva dimenticare la Gabelli “la mia prima classe dopo la sofferenza della prigionia” e riferito alla Gabelli diceva “Mi sembrava di vedere un po’ d’Italia che si andava formando ed ero spronato a trasmettere lo spirito che mi aveva animato e percepivo che i miei alunni lo capivano”. “Così ho continuato in seguito in tutte le scuole dove ho insegnato”.

Il Burdino l’ho rivisto e reincontrato molte volte in occasione dei raduni di ex allievi, quelli che noi chiamavamo “Seminari di studio” annuali di ex allievi del Ginnasio Cesare Battisti di Ala di Trento dove aveva insegnato nei primi anni dopo la Liberazione. Ricordo la gioia con cui ha distribuito ad ogni ex allievo una copia del suo libro che era uscito da poco, con una dedica personalizzata per ognuno.

Le riflessioni e i pensieri espressi da Don Marabotto e dal Burdino esponenti di due mondi diversi possono leggersi in parallelo per scoprirne l’affinità e un unico sentire sui valori della Resistenza.

In “Un prete in galera” e in “Diario Partigiano” la Resistenza è una comunità impegnata a salvare i valori, i diritti umani e civili, e la propria umanità e arricchirla, seppure in un contesto di lotta.

Era lotta di popolo, in cui si stemperavano colori diversi e si accomunavano voci dissonanti in un unitario slancio di libertà. Questo almeno era nell’animo della maggior parte dei protagonisti. Questa è stata ed è la mia Resistenza e la mia Festa della Liberazione.

Michelangelo Massano (già direttore di “Piemonte Vivo”)