Carcere, nonviolenza, società: un insidioso “pacchetto sicurezza”.

Nel cosiddetto “pacchetto sicurezza”, celermente approvato dal Governo il 16 novembre scorso, ma non ancora discusso in Parlamento, sono contenute diverse novità e previsioni che hanno sollevato molte e fondate critiche e preoccupazioni. Una, in particolare, è quella relativa all’introduzione di un nuovo reato che punisce “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, organizza una rivolta di tre o più persone, attraverso violenza o minaccia, resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti o con tentativi di evasione” (art. 18).

La novità della norma non sta tanto in quella che si può considerare la superflua individuazione del reato di “rivolta violenta”, che è già ampiamente perseguibile con la condanna dei partecipanti per i reati commessi nel corso della stessa (come dimostrato dai tanti procedimenti e condanne di questi ultimi anni). La preoccupante ed insidiosa novità, come argomenta il giurista ed ex magistrato Paolo Borgna, sta in tre parole: “resistenza anche passiva, se si volesse brutalmente sintetizzare con uno slogan, il messaggio sarebbe: protestare pacificamente è un reato”.

Una norma “paradossale”, la definisce Mauro Palma, ex garante dei detenuti: “Quando, ad esempio, si va all’aria in carcere, c’è un elemento collettivo di essere più di tre persone; se c’è una volta una protesta anche pacifica, può essere interpretata come istigazione alla rivolta … l’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità”. L’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone, ne parla come “un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. La violenza commessa da un detenuto verso un agente di polizia penitenziaria, che già prima era ampiamente perseguibile, ora è parificata alla resistenza passiva”. Considerazioni condivise, sia dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, “preoccupa la previsione che il reato possa essere contestato ad un sodalizio di sole tre persone, anche mediante atti di resistenza passiva, e dunque nonviolenta”, sia dall’Unione delle camere penali che rileva come “si è inteso introdurre nuove fattispecie di reato come la rivolta in istituto penitenziario, integrata anche da condotte tipicamente inoffensive, quali la resistenza passiva, inserendo tali nuove fattispecie nel catalogo dei reati ostativi”. L’avvocato Alberto De Sanctis parla di “scorciatoie biecamente liberticide” e pone la questione della legittimità di criminalizzare la resistenza passiva ed il comportamento nonviolento di disobbedienza civile dei detenuti per cui “fino ad oggi, a tutto concedere, poteva configurarsi un illecito disciplinare”.

Secondo il professor Luigi Manconi si tratta di una norma “odiosa ed inquietante”, che pretende di intervenire nella sfera più intima della vita del detenuto: “Si consideri quel anche passiva. Ciò significa, a esempio, che un recluso sollecitato a consumare il pasto, se si rifiutasse di farlo, sarebbe sanzionato, e pesantemente … nel faticosissimo e impervio processo di emancipazione dalla mentalità delinquenziale la resistenza anche passiva – ovvero la rinuncia alla violenza – rappresenta, per il detenuto, una tappa fondamentale della presa di coscienza e dell’integrazione in un sistema di relazioni sociali non criminali”.

Nelle parole di Manconi, che colgono un aspetto cruciale della questione, riecheggiano quelle di uno dei principali testimoni della nonviolenza nella storia, Martin Luther King che affermava: ”Sicuramente la nonviolenza, nel suo significato più autentico, non è una strategia che si usa come semplice espediente del momento; fondamentalmente la non violenza è uno stile di vita che gli uomini praticano per la trasparente moralità dei suoi obiettivi. Ma anche ammettendo ciò, la volontà di usare la non violenza come tecnica rappresenta comunque un passo avanti. Poiché chi si spinge a farlo è più probabile che adotti la non violenza in seguito come stile di vita”.

Seppure, infatti, parlando di nonviolenza si dovrebbe intendere un’articolata filosofia e strategia di azione che, secondo il suo principale esponente italiano, Aldo Capitini, dovrebbe essere “apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti, … ricerca di tecniche e di metodi di lotta compatibili con l’amore, compatibili con il rispetto della verità”, è altrettanto certo che adottare “il metodo nonviolento prepara animi e strutture ad essere immuni (dalla violenza) e dall’oppressione”.

Alla luce di queste considerazioni, criminalizzare la “resistenza passiva” sembra essere una scelta non solo liberticida ma anche miope e controproducente, dal momento che inibendo scelte nonviolente di protesta o espressione delle proprie ragioni, e penalizzando la possibilità di scegliere comportamenti alternativi a quelli violenti, “tappa fondamentale della presa di coscienza e dell’integrazione in un sistema di relazioni sociali non criminali”, si va anche ad incidere negativamente sulla finalità rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione.

Interroga, inoltre, il fatto che si voglia introdurre quello che è già stato ribattezzato “il reato di nonviolenza” in un sistema carcerario al collasso, contrassegnato da strutture fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale (peraltro insufficiente e spesso non adeguatamente preparato). Un contesto segnato dal drammatico fenomeno dei suicidi, la cui incidenza è di venti volte più alta che nelle condizioni di libertà. Un contesto in cui il dissenso e la critica hanno spesso ragione di essere e motivi fondati di espressione.

La norma sembra essere, quindi, sintomatica del diffondersi di un giustizialismo che rivela “una matrice securitaria sostanzialmente populista e profondamente illiberale” (Unione delle camere penali), i cui deleteri effetti, però, potrebbero non fermarsi all’ambito inframurario, come evidenziato da Paolo Borgna che individua in questa “piccola norma” la spia di scelte più ampie, “di orizzonti culturali che segnano una svolta e delineano un nuovo futuro”. È forse qui che si cela l’insidia principale.

Una possibile chiave di analisi e lettura delle insidie nascoste in tale norma la fornisce Judith Butler nel suo libro “La forza della nonviolenza”, in cui evidenzia la necessità di prestare attenzione alle oscillazioni delle cornici concettuali che presiedono al significato di parole come “violenza” e “nonviolenza”. Riprendendo il pensiero di Walter Benjamin ricorda come “un regime legale, se vuole monopolizzare l’uso della violenza, deve chiamare violenza ogni minaccia o sfida nei riguardi della sua autorità. Inoltre, può ribattezzare la sua propria violenza come forza obbligatoria o necessaria, persino come coercizione legittima; e poiché essa opera effettivamente attraverso la legge, in quanto legge, è legale, il che significa che è lecita” (per cogliere la  preoccupante attualità di questa analisi, basti pensare che la criminalizzazione della resistenza passiva e nonviolenta dei detenuti emerge parallelamente ai tentativi di depenalizzare il reato di tortura, di cui tanti agenti penitenziari sono incriminati). Quando “violenza” inizia a essere il nome per forme nonviolente di resistenza il compito che dovremmo assumere, secondo Butler, dovrebbe essere quello “di tracciare i modi in cui la violenza cerca di denominare “violento” ciò che le resiste … (e) si riproduce sotto forma di logica difensiva intrisa di paranoia e di odio”.

Si tratta di uno scenario inquietante e da non sottovalutare. Tuttavia il fatto che la possibilità di praticare il dissenso e la critica in modo nonviolento, attraverso la resistenza passiva, sia criminalizzato ed equiparato alla violenza da quelle autorità statali che si sentono minacciate da tali pratiche rende evidente il significato etico-politico ed il valore dell’azione nonviolenta: “Il seguace della resistenza civile non ricorre mai alle armi, e dunque non può nuocere in alcun modo ad uno stato disposto ad ascoltare la voce dell’opinione pubblica. Al contrario è pericoloso per uno stato autocratico, poiché attira l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni per le quali oppone la sua resistenza contro lo stato” (M. K. Gandhi).

Sul giornale interno del penitenziario di Asti (Gazzetta Dentro), una persona detenuta scriveva che il carcere può essere considerato “il riflesso di ciò che c’è al di là da queste quattro mura, solamente che tutto è racchiuso in pochi metri. È lo specchio in cui la società si riflette ogni giorno”. Il carcere non è, infatti, un organismo estraneo alla società, ma la riguarda e vi è strettamente collegato. Proprio per questo dall’analisi di alcune scelte e direttive relative alla vita inframuraria, si possono provare a leggere con occhi diversi anche importanti questioni che riguardano l’intera società, intravedendo scenari futuri possibili. Criminalizzare la resistenza passiva e pacifica in carcere rischia non solo di introdurre un principio difficilmente scardinabile al suo interno, ma anche di porre i presupposti per replicarlo all’esterno perché, in un certo qual modo, si vanno a ridefinire le cornici di senso in cui si può e si potrà parlare di violenza e nonviolenza, con potenziali ricadute sulla libertà di espressione e di critica, cardini dell’architettura democratica della società tutta.

Domenico Massano

Riferimenti bibliografici:

Butler J., La forza della nonviolenza, Nottetempo editore, 2020

Capitini A., Teoria della nonviolenza, Movimento Nonviolento editore, 1980

Gandhi M. K., Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi editore, 2006

King M. L., Il sogno della nonviolenza, Feltrinelli editore, 2006

Immagine in evidenza di Mana Neyestani, raffigura il volto terrorizzato di una persona con di fronte un manganello tenuto da un agente e su cui è disegnato un sorriso.