Israele in lotta per la propria identità.

Il 2023 per Israele si è aperto all’insegna delle proteste. Da ormai diversi mesi decine di migliaia di manifestanti si stanno riversando nelle piazze di Gerusalemme e Tel Aviv per protestare contro quella che viene percepita, da una parte relativamente consistente della popolazione, come una pericolosa deriva autoritaria intrapresa dal nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu. Scaturigine del malcontento popolare è stato il piano di riforma della giustizia avviato dalla compagine governativa più a destra della storia del Paese che, secondo la voce tonante di molti dimostranti, starebbe minacciando di snaturare irrimediabilmente il presunto sistema democratico dello Stato ebraico. Privo di una reale costituzione, infatti, Israele è caratterizzato da una struttura istituzionale che si basa su un delicato sistema di bilanciamento dei poteri. Il progetto del nuovo governo presieduto da Netanyahu è quello di ridurre le capacità di controllo della Corte Suprema, organo giudiziario e colonna dello Stato laico, in modo tale da assicurare all’esecutivo un ampio margine di manovra e far passare con facilità un pacchetto di leggi dal contenuto religioso ed ultra conservatore.

L’analisi geopolitica, però, lungi dal volersi fossilizzare sulla mera forma esteriore delle vicende umane, privilegia sempre lo studio degli aspetti strutturali a discapito di quelli soltanto sovrastrutturali, assurgendo ad assioma fondamentale del proprio metodo l’irrilevanza di un approccio politologico e leaderistico alle vicende internazionali. Le radici delle sollevazioni che stanno attualmente scuotendo Israele, quindi, vanno ricercate non tanto nelle questioni politico-istituzionali, quanto nella loro ben più profonda interiorità, in modo tale da potere intuire le reali cause che stanno determinando la situazione odierna. Le manifestazioni contro la riforma giudiziaria che infiammano le piazze israeliane, infatti, non sono altro che lo specchio di una società fortemente divisa lungo linee di faglia tanto demografiche quanto religiose. Un mosaico di tribù irrequiete, storicamente in lotta per la definizione dell’identità dello Stato ebraico.

Le tribù israeliane nella storia

La demografia è un fattore imprescindibile per poter capire la postura e la traiettoria di un gruppo umano. Dal momento che il destino di una collettività germina dalla sua vitalità riproduttiva, è fondamentale esaminare con attenzione la capacità di moltiplicarsi di una determinata società, al fine di comprenderne i comportamenti interni e le proiezioni esterne. Fondato da ebrei laici di provenienza prevalentemente europea durante la prima metà del Novecento, oggi Israele deve la sua crescita demografica principalmente a cittadini di profonda cultura religiosa con origini mediorientali, a cui si aggiungono ultraortodossi di incidentale appartenenza al medesimo soggetto statale. In un peculiare capovolgimento antropologico, dunque, il futuro dello “Stato degli ebrei” risiede attualmente nelle mani dei gruppi che sono giunti in Terra Santa dopo la dichiarazione di indipendenza israeliana o che ancora rifiutano di abbracciare gli ideali fondativi del sionismo: paradosso culturale, attualmente alla base dei movimenti tellurici che scuotono il ventre dello Stato ebraico.

Riprendendo la celebre definizione dell’ex presidente Reuven Rivlin[1], dopo decenni di indipendenza dal mandato britannico, Israele si sarebbe progressivamente diviso in quattro tribù[2] conducenti vite separate e parallele, ciascuna centrata su una propria capitale all’interno del territorio nazionale. I laici, stanziati sulla costa mediterranea ed in particolare vicino a Tel Aviv, discendenti dei primi sionisti e tendenzialmente depositari degli ideali che contribuirono alla fondazione dello Stato ebraico; i nazionalisti religiosi, gravitanti attorno ad Efrat, baricentro simbolico degli insediamenti in Cisgiordania, convinti che la legge religiosa debba plasmare qualsiasi aspetto della vita nazionale; gli ultraortodossi, abitanti in enclavi come Bnei Brak o quartieri completamente avulsi dalla realtà quotidiana dello Stato, originariamente antisionisti e oggi rifugiatisi in Israele per via di una fatalità storica; gli arabi israeliani, sparsi sull’intero territorio nazionale, specialmente nel Nord del Paese ed in particolare nel distretto di Haifa, teoricamente possessori dei medesimi diritti degli altri tre gruppi, in pratica discriminati dalla maggioranza ebraica.

Lo scontro in atto per il futuro di Israele, di cui le proteste attuali rappresentano solamente il sintomo di un morbo ben più radicato, trae origine proprio dalla difficile coesistenza tra queste anime nazionali culturalmente ed etnicamente disomogenee, recanti visioni del mondo diverse, se non addirittura opposte, tra loro. Se si esclude la componente araba, ai margini della società e oggi estranea alle proteste per via di un sentimento di sfiducia nei confronti delle dinamiche di uno Stato che non la coinvolge appieno, è possibile individuare due principali schieramenti interni alla collettività ebraica: la componente religiosa da un lato, formata dai nazionalisti religiosi e dagli ultraordossi, quella sionista laica dall’altro. Una faglia confessionale a cui si vi viene grossomodo a sommare anche una distinzione etnica, rispettivamente tra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti.

Il primo gruppo, in piena ascesa demografica ed ingrossato da elementi ultraortodossi variegati, attualmente sta conducendo un’offensiva per affermare il primato della religione sulla politica, mentre il secondo, seppur in costante declino demografico, sta cercando di resistere per difendere il carattere secolarizzato del sionismo e del Paese stesso. Solo tenendo presente tale frattura si possono comprendere le istanze delle proteste oggi in corso. Il tentativo di riforma della giustizia, infatti, voluto con determinazione dalle componenti più osservanti della coalizione di governo, non è altro che la miccia che ha fatto riemergere le profonde linee di faglia etnoculturali e religiose che storicamente dividono il cuore dello Stato ebraico.

Nello specifico, i padri fondatori di Israele furono tutti ebrei di estrazione askenazita e laica, ovvero provenienti dall’Europa centro-orientale e fautori del pensiero sionista di Theodor Herzl, movimento nato a metà del XIX secolo il cui fine esplicito era quello di affermare il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico e supportare la formazione di uno Stato in quella che veniva definita la “Terra di Israele”. All’interno di questa corrente politica secolarizzata, negli anni immediatamente successivi all’ottenimento dell’indipendenza israeliana nel 1948, era persino rinvenibile una cospicua componente socialdemocratica, che all’epoca ben si sposava con la laicità originaria del movimento sionista. Di qui l’idea di insediarsi nella nuova dimora nazionale attraverso la creazione di kibbutz, comunità agricole a gestione collettiva ed egualitaria, modello di chiara influenza sovietica (kolchoz). Il carattere secolare e post-storico di questa parte di società israeliana, però, un tempo effervescente e numericamente preponderante, si è progressivamente tradotto in un lento, ma inesorabile, tramonto demografico, che ne ha ridimensionato il peso relativo nei confronti della vita politica del Paese. Impossibile, dunque, conservare la matrice laica dello Stato di fronte ad un tale scadimento della natalità e all’incipiente senescenza della componente secolarizzata. Alla demografia non si comanda.

Durante la prima metà del Novecento, anticamera della futura indipendenza israeliana, la presenza dei sefarditi in Terra Santa fu invece estremamente marginale. Gli ebrei di questa ascendenza, dimoranti da secoli principalmente nei territori compresi tra Medio Oriente e Nord Africa dopo l’esodo dalla penisola iberica avvenuto nel XV secolo per mano dei Re cattolici spagnoli, non parteciparono al progetto sionista, ma ne subirono le dirette conseguenze. A seguito della nascita dello Stato ebraico nel 1948, infatti, i sefarditi vennero espulsi dai propri Paesi di residenza, ostili all’occupazione della Palestina, e trovarono rifugio in Israele. Spesso di matrice linguistica araba, caratterizzati da una profonda osservanza religiosa e portatori di valori distanti rispetto al laicismo diffuso della classe dirigente askenazita, gli ebrei sefarditi vennero subito ritenuti immigrati di minore dignità e furono relegati negli strati inferiori della piramide sociale israeliana. Fattore, quest’ultimo, che contribuì alla germinazione di una moltitudine di movimenti politici sefarditi di affiliazione nazionalistico-religiosa, che iniziarono a contrapporsi aspramente alla classe dirigente secolarizzata ed askenazita.

Ad aumentare il peso specifico della componente religiosa all’interno dell’architettura sociale israeliana, a partire dalla seconda metà del Novecento, contribuì anche la progressiva emigrazione degli ebrei ultraortodossi in Terra di Israele, ivi presenti in poche centinaia al momento dell’indipendenza. Galassia composita e tutt’altro che omogenea, questa comunità religiosa nacque intorno al XX secolo in Europa orientale da un peculiare ramo dell’ebraismo ortodosso. Principalmente askenaziti con qualche filone sefardita, gli haredim, in ebraico “coloro che tremano al cospetto della parola di Dio”, a seguito della nascita di Israele si opposero strenuamente alla creazione dello Stato di matrice sionista, preferendo invece rimanere in Europa, certi che gli ebrei dovessero tornare alla propria terra soltanto con l’avvento del messia. Successivamente alla catastrofe dell’Olocausto consumatasi durante la seconda guerra mondiale, però, gli haredim superstiti furono costretti controvoglia a rifugiarsi in Terra Santa o negli Stati Uniti, dove da allora continuano a risiedervi in enclavi avulse dalla società e restie all’assimilazione. Esprimendosi in yiddish per non macchiare inutilmente il sacro idioma ebraico, gli ultraortossi vivono tradizionalmente sotto un auto imposto regime autoritario basato su regole comunitarie dettate dai rabbini locali ed aspettano con pazienza l’arrivo del messia dedicandosi quasi esclusivamente allo studio della Torah. Temendo che il carattere laico dell’esercito potesse indurre i giovani della comunità ad abbandonare la religione, dopo essere giunti in Israele contro la loro volontà, gli haredim si opposero inoltre alla leva e, dal momento che il loro peso demografico all’epoca era estremamente marginale, ricevettero dallo Stato l’esenzione dal servizio militare per potersi dedicare appieno all’analisi dei testi sacri.

In meno di sessant’anni dalla fondazione di Israele, però, per via della sua esuberanza demografica e dei tassi di fertilità eccezionali, la popolazione israeliana non askenazita e non laica si è dimostrata in grado di crescere a dismisura, fino a divenire una vera e propria maggioranza. Nonostante esistano notevoli differenze di carattere ideologico tra nazionalisti religiosi ed ebrei ultraordossi, specialmente riguardo al valore delle istituzioni statali, quest’enorme prolificità ha permesso loro di spostare l’ago della bilancia del potere israeliano in favore di posizioni filo-religiose, discostando il Paese levantino dalla propria tradizione secolarizzata. La questione politico-giudiziaria rappresentata dal tentativo di riforma della Corte Suprema, dunque, è soltanto l’aspetto sovrastrutturale sotto il quale si cela il vero nucleo della questione, vale a dire la battaglia per l’identità stessa dello Stato ebraico, combattuta dalle diverse anime interne ad Israele.

Il futuro di Israele

Fin dalla sua fondazione, seppur formalmente democratico, Israele ha imposto al proprio ceppo dominante delle limitazioni forzate alla libertà individuale per poterlo temprare alla guerra. Da quando ha inglobato con la guerra dei sei giorni (1967) territori abitati da una popolazione araba allogena, divenendo a tutti gli effetti impero, ha sempre cercato di evitare l’avanzamento delle minoranze nel cuore della sua società, non curandosi mai di realizzare uno Stato realmente egualitario. Una velleità democratica, infatti, non potrebbe mai davvero sovrastare le più intime aspirazioni di un popolo a mantenersi in vita e ad affermarsi sugli altri in un ambiente a lui ostile.

Quando non viene imposto dall’esterno, il reale rivestimento istituzionale di una popolazione è sempre determinato dalle sue attitudini e dalle sue aspirazioni geopolitiche. Non esiste arbitrarietà a riguardo. Le nazioni che perseguono obiettivi massimalistici come Israele, a partire dalla propria sopravvivenza sino all’egemonia sulla loro regione di appartenenza, non possono mai costituirsi in pura democrazia, pena il rovinoso mancato raggiungimento dei propri traguardi. Togliere agli ebrei lo Stato di Israele, infatti, non significherebbe solo togliere loro un territorio, vorrebbe dire riconsegnarli ad una vera e propria precarietà esistenziale, fobia atavica del popolo eletto. La volontà di costituirsi in un sistema politico realmente egualitario, quindi, risulta chiaramente incompatibile con la naturale necessità israeliana di battersi con determinazione per restare una nazione compiuta ed influente nel Medio Oriente.

Il cuore della vicenda relativa alle recenti manifestazioni, dunque, non è da rilevarsi nella lotta per la salvaguardia di una democrazia conforme ai canoni occidentali, narrazione tanto cara alla vulgata nostrana, bensì in un tentativo spasmodico da parte della classe dirigente askenazita e progressista di limitare l’ingerenza della religione negli affari dello Stato. Anche se in piazza sono scesi alcuni religiosi, il senso della protesta è chiaramente la difesa del carattere laico-sionista dello Stato dall’attacco di chi vorrebbe imprimervi un’indelebile marchio intollerante, elevando la Torah a carta costituzionale. Conferma lampante che Israele non è propriamente una nazione, piuttosto un impero, altrimenti non produrrebbe lo scontro identitario che oggi ne contrappone le diverse anime e ne scuote le fondamenta.

La sospensione temporanea della riforma della giustizia a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi e l’avvio di faticosi negoziati tra maggioranza ed opposizione per raggiungere un compromesso non determinano assolutamente la fine della crisi. Tutt’altro, le faglie interne alla società ebraica non possono sparire grazie ad una semplice tregua, sono inscritte nell’evoluzione demografica ed antropologica di Israele, sono incise nel fattore umano. Tempo e vitalità riproduttiva giocano a favore degli ebrei di ascendenza sefardita o di stretta osservanza ortodossa, che possono contare sulla prospettiva di un incremento numerico sempre più marcato ed inarrestabile, trascinando lo Stato ebraico verso un lento ma inesorabile scivolamento tendente ad Oriente. Una marcia figurata del popolo eletto verso una deriva autoritaria e teocratica quindi, certamente più familiare al contesto geografico di riferimento, ma lontana dalla secolarizzazione e dall’ostentata democraticità di stampo occidentale.

Proprio tale abbandono del sedicente impianto democratico di Israele, però, tanto ricolmo di contraddizioni quanto sbandierato con fierezza per rimarcare propagandisticamente una propria alterità rispetto agli altri attori regionali, potrebbe portare ad un netto scadimento della potenza israeliana nell’agone internazionale. Seppur dotato di eccezionali capacità belliche e tecnologiche, infatti, tenendo conto del contesto geopolitico ostile in cui è inserito, lo Stato ebraico necessita della vitale copertura militare e del sostegno diplomatico degli Stati Uniti, in questa fase ampiamente scontenti dall’incipiente fisionomia orientale del proprio alleato. Certo, anche Washington ha bisogno di Israele per realizzare tatticamente un equilibrio di potenza nella regione, evitando che Iran o Turchia dominino il Medio Oriente, ma attualmente l’attenzione dell’impero a stelle e strisce è puntata verso l’Indopacifico ed è poca la rilevanza di Gerusalemme in questo quadrante. Ad intricare ancora di più la matassa si è inserito l’attivismo di Pechino nell’area, che ha portato ad una normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita ed Iran, prodromo di un possibile grave indebolimento dell’intesa securitaria arabo-israeliana, che vede nel contenimento di Teheran la sua unica ragion d’essere.

Insomma, pare che ci siano tutte le premesse affinché Israele si possa avvitare in una crisi interna in grado di arrecare notevoli criticità anche a livello strategico.

Nel breve periodo, il rischio di una probabile terza intifada palestinese alimentata dalle politiche oltranziste della nuova compagine governativa israeliana, piuttosto che una minaccia esistenziale, appare come un diversivo utile a compattare temporaneamente il fronte interno. Sul medio-lungo periodo, però, in assenza di un grave pericolo incombente sul popolo eletto (Iran?), unico fattore realmente in grado di unire le due anime socioreligiose del Paese, lo Stato ebraico rischia di cadere vittima di sé stesso. Inoltre, la lenta, ma progressiva, acquisizione di nuovi territori in Cisgiordania, moto espansivo che non scaturisce da una smodata ambizione ad opprimere gli altri, bensì dall’esigenza vitale di allontanare dal fulcro della patria la propria prima linea di difesa, espone Israele al rischio di una bomba demografica araba, ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe incidere sulla tenuta interna del Paese.

Il fragile bilanciamento tra istanze religiose domestiche, coesione sociale e gli altri imperativi strategici di Israele sarà dunque la sfida che caratterizzerà la traiettoria dello Stato ebraico negli anni a venire. Non certo una sfida semplice per il popolo eletto.

Gabriele Massano


[1] THEICENTER, «Reuven Rivlin’s Four Tribes Speech», Theicenter.org, 21/11/2018

[2] Da intendersi in senso biblico, piuttosto che sociologico