Licenziamento del lavoratore con disabilità: parità di trattamento e obbligo dei ragionevoli accomodamenti.

Di recente è stata posta al vaglio della Corte di Cassazione la vicenda relativa al licenziamento di un lavoratore divenuto fisicamente inidoneo alla mansione lavorativa (Sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021). I Giudici hanno dovuto stabilire se si trattasse o meno di un licenziamento legittimo. Per poter giungere ad una decisione sono state prese in considerazione le normative nazionali che regolano la materia ed il contesto normativo sovranazionale. Di particolare importanza l’analisi dell’art.2 della “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, che definisce per “discriminazione fondata sulla disabilità” qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità ‘che abbia ‘ lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un “accomodamento ragionevole”. Per “accomodamento ragionevole” si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo ed adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. Proseguendo nell’analisi della normativa viene riportato il d. lgs. n. 216 del 2003, che, nel dare “Attuazione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ha stabilito quanto segue: “Il principio di parità di trattamento senza distinzione … si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” e “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli”. Ed ancora il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 ha inserito nel testo dell’art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, un comma 3 bis del seguente tenore: ”Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”. Alla luce delle norme di cui sopra, il datore di lavoro ha l’obbligo di trovare una soluzione “ove possibile”, e non basta “semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili, in cui ricollocare il lavoratore”. La Corte, premessa l’applicabilità dell’art. 3, comma 3 bis, del d. lgs. n. 216 del 2003 ha ritenuto sussistere, nel caso sottopostole, in capo al datore di lavoro, un “obbligo generale di adottare tutte quelle misure – ‘accomodamenti ragionevoli’ – atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull’organizzazione dell’azienda”, salvo il limite dell’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa. Tuttavia non è possibile predeterminare in astratto l’esatto contenuto dell’obbligo di cui sopra. Si è già visto che un limite espresso all’adozione degli accomodamenti è rinvenibile nella definizione presente all’interno della Convenzione ONU laddove si specifica che tale accomodamento non deve imporre “un onere sproporzionato o eccessivo”. Al limite espresso della “sproporzione” si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”. L’accomodamento postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni. Così pure nel caso degli accomodamenti occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse della persona con disabilità al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge. Grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di “accomodamento” ovvero che l’inadempimento sia dovuto a causa non imputabile. Per la Corte territoriale, nel caso in esame, il datore di lavoro “si è limitato ad affermare l’impossibilità del repechage del dipendente fisicamente inidoneo secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni”. Per quanto detto, ai fini dell’adempimento dell’obbligo previsto dall’art. 3, co. 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, non era sufficiente per la società allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, sovrapponendo la dimostrazione circa l’impossibilità di adibirlo a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con la sua condizione, con il distinto onere di ricercare altre soluzioni ragionevoli, né tanto meno era sufficiente trincerarsi dietro la mera affermazione che di accomodamenti praticabili non ve ne fossero, lamentando che il lavoratore non ne aveva individuati. Si ritiene che questa sentenza si ponga sul solco della giurisprudenza che mira a far venir meno le condotte discriminatorie che vengono poste in essere nei confronti delle persone con disabilità.

Avv. Luca Massano

Immagine in evidenza: tre persone, una donna al telefono e due uomini in carrozzina che consultano dei documenti lavorano in un cantiere.