La mafia e l’utilizzo delle festività religiose per ottenere il consenso.

Giornali e televisioni in questi mesi ci hanno inondato di notizie riguardanti il boss mafioso Matteo Messina Denaro e la sua lunga latitanza a “cielo aperto”, condotta nel silenzio e nella complicità dei suoi compaesani. Quasi nello stesso periodo le cronache siciliane riportavano lo straordinario successo dei festeggiamenti in onore di Sant’Agata, festa patronale catanese tornata straripante di devoti dopo gli anni di sospensione per il Covid. Due fatti apparentemente opposti eppure legati da un aspetto riguardante la capacità mafiosa di mimetizzarsi nel proprio contesto culturale di riferimento.

La Festa patronale di Sant’Agata è la più importante cerimonia religiosa della città di Catania. Viene celebrata in onore della santa patrona del capoluogo etneo ed è considerata la terza festa cattolica più importante del mondo, per via del suo enorme valore etno-culturale e per l’impressionante numero di partecipanti che riesce ad attirare ogni anno. Alla processione religiosa, accompagnati da un imponente popolo in festa, sono chiamate a partecipare tutte le principali cariche istituzionali, ecclesiastiche e civili della città di Catania. In uno splendido misto di folclore e devozione, l’evento riesce così a riflettere l’identità culturale più profonda del capoluogo siciliano. Dietro la celebrazione della festa patronale, però, coperta da fastose sfilate e da spettacoli pirotecnici, serpeggia anche la realtà drammatica delle infiltrazioni mafiose.

Durante i festeggiamenti del 2004, Renato Roberto Calì, giovane catanese devoto alla Santa, morì a causa di alcune gravi ferite riportate dopo essere stato travolto dalla calca che si era creata attorno al fercolo. A seguito di questo tragico episodio la Procura di Catania aprì un’inchiesta giudiziaria, che portò inaspettatamente alla ribalta della cronaca le infiltrazioni mafiose nella festa patronale, fino ad allora considerate al pari di semplici leggende metropolitane. Sebbene infatti queste ingerenze fossero note ai politici di ogni estrazione, alle forze dell’ordine, agli amministratori della città e alle stesse diramazioni della Chiesa cattolica locale, le autorità avevano da sempre assunto un atteggiamento prudente nei confronti delle critiche alle celebrazioni religiose, principalmente per paura di potersi inimicare la popolazione civile.

Secondo le indagini della Procura, tra il 1999 ed il 2005, la festa di Sant’Agata sarebbe stata sottoposta al controllo diretto delle più potenti famiglie mafiose del capoluogo etneo. Esponenti di spicco di alcune note cosche catanesi, infatti, erano riusciti ad ottenere la piena gestione del Circolo di Sant’Agata, un’associazione cattolica che ancora oggi svolge un ruolo determinante nell’organizzazione dei festeggiamenti, ed erano stati immortalati sul fercolo mentre portavano a spalla lo scrigno reliquario della santa patrona.

Gli osservatori meno attenti ritennero che l’interesse degli indagati fosse esclusivamente di natura economica e derivante dalla gestione delle tempistiche di ogni fermata della portantina, a cui sarebbe corrisposto un incremento nei guadagni del commercio ambulante presente in determinate zone ubicate lungo l’itinerario della processione. Sotto il diretto controllo mafioso, infatti, sarebbero state la logistica dei fuochi d’artificio, la vendita dei ceri e la direzione di un giro di scommesse clandestine collegato all’orario di entrata e uscita del fercolo dalla cattedrale, con un conseguente incasso illecito da record garantito durante i giorni della celebrazione.

Secondo la Procura etnea, però, la motivazione economica non sarebbe stata l’unica, e nemmeno la più rilevante, a spingere Cosa Nostra ad assumere il controllo dei festeggiamenti in onore di Sant’Agata. Le famiglie mafiose catanesi, infatti, utilizzarono il momento aggregativo della festa religiosa per ostentare il più platealmente possibile la loro straordinaria capacità di controllo del territorio, usando la processione come una vera e propria passerella del loro prestigio e sfruttandola come uno strumento funzionale al consolidamento del loro potere criminale.

Occorre osservare che la mafia possiede alcuni macro-obbiettivi strategici e degli scopi ben precisi: l’accumulo di denaro e soprattutto l’acquisizione del potere. Piuttosto che incassare un semplice guadagno economico, però, i membri delle associazioni mafiose hanno da sempre bramato di esercitare il potere sulle proprie comunità di riferimento, cercando di occupare i gangli del locale sistema sociale, economico e politico. Per questo non ci si può stupire del fatto che molti boss mafiosi siano spesso disposti ad assumere un tenore di vita da “pecorai”, privandosi persino dei piccoli piaceri accessibili alla media borghesia, pur di mantenere ben salde le redini del comando.

Per raggiungere i loro obiettivi di accaparramento del potere e del denaro, gli “uomini d’onore” adottano due metodi: la persuasione e la violenza. La violenza però, lungi dall’essere la prima opzione a disposizione del mafioso, è in realtà la sua extrema ratio, la sua arma di riserva. Una cosca mafiosa, infatti, è tanto più vicina al massimo della sua potenza, quanto meno deve fare ricorso ad operazioni sanguinarie. Se proprio deve ricorrere alla violenza fisica e non solo a quella minacciata, l’uomo d’onore preferisce attuarla in modo mirato e programmato, attribuendogli una forte carica simbolica, seguendo la logica di “punirne uno per educarne cento”. Per il raggiungimento dei propri scopi criminali, quindi, la persuasione è da sempre la prima arma a disposizione del mafioso, nonché la sua preferita.

Sebbene sia corretto pensare che grazie al denaro l’uomo d’onore possa riuscire a comprare la fedeltà di molte persone, è però altrettanto vero che non tutti sono disposti a vendere la propria libertà per soldi. Questo la mafia lo sa e lo ha sempre saputo, e non sarebbe un fenomeno così inquietante e perdurante, ma piuttosto una semplice banda di fuorilegge, se non avesse coltivato un reale consenso sociale, ampio e radicato presso la propria comunità di riferimento. Senza questa “zona grigia” di complicità e genuino supporto esterno, infatti, non si riesce a capire come spesso una piccola minoranza riesca a tenere sotto scacco un’intera regione (se non un’intera nazione). I mafiosi, quindi, sono riusciti in ciò in cui altre associazioni illegali hanno fallito: creare un habitat favorevole alla propria diffusione, evitando l’isolamento logistico e psicologico dalla società di appartenenza. Il sistema di governo mafioso del territorio, dunque, prevede che le persone controllate dall’organizzazione condividano per convinzione il “codice culturale” di chi le controlla. Presuppone che ci sia sintonia tra i principi etici e filosofici di chi è dentro la cosca criminale e la visione del mondo e della vita di chi è all’esterno di essa.

Per dispiegare efficacemente questa loro peculiare competenza gli uomini d’onore hanno bisogno di possedere e di mantenere un’appartenenza alla cultura del luogo in cui si muovono, una legittimazione che gli viene in prevalenza fornita, in un contesto tradizionale profondamente intriso di religiosità come quello siciliano, dalla partecipazione attiva ai riti, alle cerimonie e più in generale dall’affiliazione visibile alla Chiesa cattolica. Nelle ritualità collettive come la festa di Sant’Agata, quindi, la mafia non solo si afferma esteriormente come depositaria di alcuni valori tradizionali, completamente distorti però dal loro significato originario, ma di essi si serve per legittimare davanti alla popolazione la propria indiscussa preminenza sociale, in quanto capace persino di gestire e dirigere le cerimonie religiose. Tramite la partecipazione visibile alle feste e mediante l’assunzione di ruoli di rilievo nelle medesime, i mafiosi perpetuano così la legittimazione all’esercizio di posizioni di dominio all’interno della comunità locale, garantendosi quel rispetto che rappresenta l’altra faccia della paura che essi incutono.

Le ritualità cattoliche, dunque, attraggono i mafiosi in quanto momenti in grado di offrire loro quel “codice culturale” con cui possono provare a corteggiare e sedurre le proprie vittime, senza bisogno di ricorrere, almeno nell’immediato, a minacce o atti di brutale violenza fisica. Il successo di questa strategia presuppone una lunga e colpevole tolleranza da parte del potere locale ed anche della Chiesa cattolica, i cui vertici e diramazioni locali solo recentemente hanno modificato il proprio atteggiamento, cominciando in più occasioni a far prevalere la sostanza del messaggio evangelico sulla condivisione solo formale dell’insegnamento ecclesiale e sull’esteriorità dei comportamenti devoti, che rappresentano il principale aspetto su cui fa leva l’agire mafioso in quest’ambito.

Dott. Gabriele Massano