COVID-19 e la tragedia nelle strutture residenziali.

Non si può rimanere indifferenti di fronte alle tante, troppe persone con disabilità, anziane e con problemi di salute mentale morte in questi mesi di emergenza Covid-19, in strutture residenziali pubbliche e private. È ora, come affermato dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), “di mettere in discussione un intero sistema di strutture segreganti, di “luoghi speciali” o spacciati per tali in funzione di pseudo-specialità riabilitative perché indirizzati a questa o a quella condizione patologica. […] non sono solo le lacune o gli errori di profilassi ad avere causato il disastro, ma stessa logica di coabitazione, di aggregazione forzata, che troppo spesso contraddistinguono queste strutture e questi modelli”.

Il sostegno ai percorsi di vita indipendente, alle misure di assistenza indiretta, alla domiciliarità e la garanzia di soluzioni abitative dignitose, di tipo familiare, quando non sia proprio più possibile restare a casa propria, sembrano continuare ad avere un carattere esclusivamente residuale rispetto a interventi predefiniti e gestiti direttamente dagli enti pubblici come, in particolare, l’inserimento in grandi e impersonali strutture residenziali (dall’analisi degli ultimi dati Istat disponibili, relativi al 2014, in Italia risultavano “13.203 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari”, al cui interno erano ospitate 273.316 persone con disabilità e non autosufficienza).

Questo nonostante l’art. 19 della Convenzione ONU (l. 18/2009) ribadisca la necessità di garantire “l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone”.

Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nella sua Relazione al Parlamento 2018, relativamente agli interventi e ai servizi rivolti alle persone con disabilità, denunciava l’emergere sempre più diffuso di “sintomi di sanitarizzazione, dettati dalla mancata attivazione o dal mancato coordinamento di supporti per il vivere nel proprio contesto abitativo e sociale abituale”. Affermazioni che confermavano quanto il Comitato Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità aveva segnalato nelle sue Osservazioni del 2016, esprimendo preoccupazione per la “tendenza a re-istituzionalizzare le persone con disabilità e per la mancata riassegnazione di risorse economiche dagli istituti residenziali alla promozione e alla garanzia di accesso alla vita indipendente per tutte le persone con disabilità nelle loro comunità di appartenenza”.

Parallelamente a tali autorevoli “richiami”, il Secondo Programma di Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, evidenziava la necessità di un “riorientamento dei servizi verso l’inclusione sociale e il contrasto attivo alla istituzionalizzazione e segregazione della Persona con Disabilità. La promozione della vita indipendente e il sostegno all’autodeterminazione non sono più da considerare settori dell’intervento di welfare quanto piuttosto criteri ispiratori complessivi del sistema”.

Tali indicazioni, a oggi, sono rimaste sostanzialmente “sulla carta” e non paiono esser state declinate in azioni e interventi, anche attraverso una riallocazione delle risorse prima destinate all’istituzionalizzazione.

Occorre un repentino cambio di paradigma per garantire il diritto alla vita indipendente, all’autodeterminazione e a un abitare dignitoso per tutti, cogliendone anche la stretta correlazione con il diritto alla salute, come la pandemia Covid-19 ha mostrato, perché, riprendendo le parole della FISH, “questa tragedia non sia avvenuta invano. Affinché quelle morti silenziose non siano state inutili”.

Domenico Massano