Carcere, Tortura e l’Effetto Lucifero.

La Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha comunicato, in data 08/09/2021, la conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 120 persone (più del doppio delle 52 raggiunte da misure cautelari a giugno) nel procedimento per “plurime condotte di tortura” consumate a danno di 177 persone detenute presso la locale Casa circondariale”1.

Il reato di tortura è stato introdotto nel codice penale italiano solo con la legge 110 del 2017, nonostante l’Italia avesse ratificato la Convenzione ONU contro la tortura del 1984, già nel 1988 con la legge 4982. Prima del 2017 non era possibile condannare per questo reato, come testimonia, ad esempio, l’impunità di diversi agenti di polizia penitenziaria del carcere di Asti riconosciuti responsabili, come affermato dal giudice nella sentenza del 2012, di gravi e sistematiche violenze tali da costituire “vere e proprie torture” contro due persone detenute, ma nei cui confronti, in assenza di una legge specifica, non si potè procedere3.

Nel caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere tra gli 87 capi d’accusa formulati nell’inchiesta della Procura, l’ipotesi di reato principalmente contestata è proprio quella di tortura, per condotte consistenti in “una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse, degradanti ed inumane, prolungatesi per circa quattro ore del giorno 6 aprile 2020 …”.

I filmati che hanno documentato i pestaggi e le violenze sono drammaticamente espliciti e nel mese di luglio 2021, subito dopo la loro diffusione, la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, ed il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, in un comunicato congiunto si dichiaravano “Sconcertati dalle immagini diffuse”, esprimendo “la più ferma condanna per la violenza e le umiliazioni inflitte ai detenuti, che non possono trovare né giustificazioni né scusanti”. Chiedevano, quindi, “approfondimenti sull’intera catena di informazioni e responsabilità, a tutti i livelli, che hanno consentito quanto accaduto”, ribadendo “la necessità di procedere tempestivamente al ripristino dell’intera rete di videosorveglianza attiva negli istituti”, e sottolineando, infine, “la necessità di rafforzare ulteriormente l’attività di formazione di tutto il personale dell’Amministrazione penitenziaria”.

Il Garante nazionale si soffermava, in particolare, sulla necessità di fermare la “deriva culturale che tali immagini evidenziano”, riguardando comportamenti incompatibili con il fondamento democratico del nostro Paese”. Per arginare il rischio del diffondersi nel sentire comune “di una concezione della pena detentiva in cui possano avere legittimità tali comportamenti”, si sarebbe dovuto agire immediatamente su più fronti: a) l’assoluta intransigenza verso messaggi di sottovalutazione degli episodi; b) la necessità di interventi che, al di là del piano penale, siano inequivocabili anche sul piano disciplinare e, parallelamente affrontare in modo efficace la questione della riconoscibilità degli operatori delle forze di polizia; c) la ridefinizione di una catena di trasmissione delle informazioni agli organi superiori.

Infine, ribadendo un aspetto più volte sottolineato, si richiamava la necessità di “un radicale intervento sui percorsi formativi, iniziali e nel corso della carriera, che sappia estirpare quella cultura del branco che emerge troppo spesso”.

Il “tradimento della Costituzione” (come affermato dall’attuale ministra Cartabia) che si è consumato a Santa Maria Capua Vetere, evidenzia, secondo il sociologo Luigi Manconi, la persistenza di un’idea del carcere, “ridotto a luogo di contenimento e repressione dei corpi … di sopraffazione fisica e di afflizione psicologica”4. Un’idea del carcere come di un sistema fondato sulla violenza, in cui la concezione della pena largamente dominante (come in buona parte della classe politica e del senso comune), è fondata sull’assunto che il recluso costituisca sempre e comunque, anche di fronte a legittime rivendicazioni di diritti, “un fattore di irriducibile violenza da sottomettere con il ricorso a una violenza opposta e speculare, capace di renderlo inoffensivo” (idea probabilmente amplificata dall’emergenza pandemica, basti pensare che nell’arco di 9 mesi, tra il luglio del 2019 e l’aprile del 2020, nove procure hanno indagato su altrettante vicende di violenze all’interno delle carceri)5 6.

Sembra difficile far passare anche un concetto concetto tanto semplice quanto ovvio, ossia che, come ribadito dal Garante Mauro Palma, “Si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti”. Inoltre, come affermato dal noto giurista Ferrajoli, il carcere dovrebbe privare esclusivamente della libertà personale, non degli altri diritti, e dovrebbe essere informato innanzitutto “al massimo rispetto della persona detenuta, che in quanto nelle mani delle istituzioni pubbliche dovrebbe diventare qualcosa di sacro, di intangibile, di oggetto per l’appunto di rispetto, anche perché alla simmetria tra il diritto e il crimine, che il diritto svolge la più potente funzione di delegittimazione e di isolamento del crimine …”7.

Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere mostra che, purtroppo, le cose non stanno proprio così, ed evidenzia le responsabilità sia delle singole persone coinvolte, sia dell’intera istituzione carceraria (e del populismo penale che sembra costituirne la base), entrambe dimensioni dello stesso problema non solo strettamente correlate tra loro, ma anche al sistema socio-politico, tecnico-culturale ed economico prevalente e di riferimento.

Come, infatti, sostiene Zimbardo nel testo “L’effetto Lucifero”8, spesso si definisce “il comportamento aberrante, illegale o immorale di individui che esercitano professioni di pubblico servizio, come poliziotti, agenti penitenziari e soldati, una cattiva azione di alcune mele marce, implicando con ciò che si tratti di una rara eccezione e che queste persone vadano collocate da una parte della frontiera stagna tra male e bene, mentre la maggioranza costituita da mele buone sta dall’altra. Ma chi fa questa ripartizione? Di solito, sono i guardiani del sistema, che vogliono isolare il problema per stornare l’attenzione e la colpa da chi sta al vertice e può essere responsabile di aver creato condizioni di lavoro insostenibili o di non avere esercitato una sorveglianza o un controllo. Anche in questo caso, l’impostazione disposizionale della mela marcia ignora il cesto di mele e il suo impatto situazionale potenzialmente capace di corrompere chi vi sta dentro”.

Secondo Zimbardo ciò non vuol dire negare la responsabilità né la colpevolezza dei singoli autori di violenza, piuttosto, vuol dire acquisire consapevolezza che “cattivi sistemi creano cattive situazioni, che creano mele marce, che creano cattivi comportamenti, anche in brave (o presunte tali, nda) persone” (senza dimenticare, però, che questa non è una deriva inevitabile: si può sempre dire di No).

Seguendo tale analisi sarebbe opportuno, quindi, iniziare a riflettere su quali interventi e provvedimenti attivare congiuntamente sia relativamente alle singole persone (responsabili e non), sia sulle situazioni e contesti che ne hanno permesso (o non impedito) le condotte violente, sia sui sistemi socio-politici, tecnico-culturali ed economici prevalenti e di riferimento, che ne costituiscono impalcatura e presupposto.

In tale prospettiva, e cercando ulteriori chiavi di lettura e di approfondimento, potrebbe essere utile riprendere e provare ad analizzare quanto accaduto nel carcere di Asti (le torture contro due detenuti per cui gli agenti responsabili non furono condannati), alla luce di un piccolo ma significativo corso di formazione interno, che si è svolto diversi anni dopo, nel 2019, ma che può offrire alcuni spunti di riflessione su certe continuità di sistema e sull’inerzia di situazioni particolari, che interrogano sul significato, sulle ricadute e sulle prospettive della pena detentiva e dell’istituzione carceraria.

[Continua …]

1 La rilevanza del numero delle persone coinvolte, pur in attesa degli esiti del processo, denota la violenta gravità dei fatti, che l’allora Ministro Bonafede presentò in modo “inqualificabile” come una “doverosa azione di ripristino della legalità”, incurante sia dell’illegale mattanza che si era svolta, sia del fatto che le brutalità erano avvenute quando le proteste, nate a causa dell’assenza di dispositivi di protezione dal Covid, erano completamente rientrate.

2 Tale introduzione non è stata, tuttavia, ritenuta del tutto soddisfacente e conforme all’art. 1 della Convenzione ONU da diverse associazioni tra cui Amnesty International, Antigone, A Buon Diritto, …

3 Il caso approdò successivamente alla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) che nel 2017, confermando le affermazioni del giudice di primo grado, condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 (Divieto di tortura) della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, per le violenze subite dalle due persone detenute nel carcere astigiano.

4 “Un sistema che, coscientemente o meno, persegue con ogni mezzo — dal linguaggio puerile (domandina, spesino, scopino…) alla mortificazione della sfera sessuale — l’infantilizzazione del recluso e la sua de-responsabilizzazione (verso sé e verso gli altri)”, Manconi L., Torrente G., “La pena e i diritti” Carocci, 2015.

5 Va da sé che, in tale contesto, dove la formazione, l’esperienza, la professione, ruotano intorno a quella che è la prima (e spesso ritenuta l’unica) mansione del poliziotto penitenziario, che è quella di “controllare e custodire”, il principio costituzionale della “rieducazione” risulti un esercizio retorico per anime belle.

6 L’idea di una istituzione titolare di un monopolio legittimo della forza che costituisce “un potere immenso e delicatissimo”, e che, senza “adeguati controlli, un processo di formazione intelligente e un processo di democratizzazione”, tende a degenerare e diventare abuso.

7 Ferrajoli L., E’ ancora necessario il carcere?”, in Atti del Convegno “Il carcere in Europa. Tra reinserimento ed esclusione”, Pisa 29/02-01/03 2008.

8Zimbardo P. G., “L’effetto Lucifero”, Raffaello Cortina, Milano, 2008